venerdì 3 marzo 2017

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_6

Il canto della voce


Sto partecipando a un corso biennale organizzato dal centro tridentino di Musicoterapia, pensato da Antonella Grusovin e Elena Sartori. Il percorso propone l'integrazione e l'approfondimento delle competenze musicoterapiche in riferimento alla comunicazione sonoro/vocale. Il focus è relativo alla comunicazione rispetto a varie discipline e ambiti che si occupano di vocalità. L'espressione e la sperimentazione di questi aspetti consentono di ampliare le proprie capacità di ascolto, relazionali e espressive. Le attività proposte sono volte ad acquisire consapevolezza vocale dove suono, canto e movimento favoriscono una conoscenza di sé e delle proprie capacità espressive e comunicative. Il gruppo è formato da dieci persone, adulte, musicoterapisti diplomandi e altri già attivi sul campo.Di seguito propongo alcune esperienze fatte con Antonella Grusovin, musicista, musicoterapista, formatrice e supervisore che si occupa di vocalità da più di vent'anni. Descrivo le attività e una loro possibile trasposizione in ambito professionale.
  1. In cerchio. Il conduttore, senza dire nulla, comincia a respirare in modo sonoro. Tutti lo copiano. Il conduttore emette dei suoni con la voce. Inizia una melodia bordone di coro, dolce, morbida. Il conduttore entra nel cerchio e, facendo tutto il giro, improvvisa con ogni persona dedicando almeno un minuto a ciascun saluto. Questa esperienza, svolta per prima, può essere utile a sciogliere le tensioni, le timidezze. Tutti ricoprono lo stesso ruolo e non ci sono prestazione e giudizio. Ci si saluta cantando, in modo semplice e giocoso.
  2. Il conduttore chiede di presentarsi a turno cantando il proprio nome. Si condivide una riflessione sul senso del nome proprio, cosa porta con sé quando viene verbalizzato. Il conduttore chiede di camminare nella stanza in ordine sparso, cantando il nome della persona che si incontra. Poi ognuno dedica un po' di tempo al canto del proprio nome, nella ricerca della propria sonorità e nella cura dei parametri musicali. Poi, tornati in cerchio, ognuno ricanta il proprio nome. Fatta questa esperienza si raccontano le sensazioni, la particolarità di riconoscere il nome come custode della più intima e profonda natura. Il nome proprio è più difficile di quello degli altri, cantarsi fa incontrare se stessi. Questo esercizio, trasposto in ambito professionale, richiama la cura del chiamare per nome un paziente, ciò che questa semplice azione può smuovere nell'intimo della persona e il non pretendere per forza una risposta, soprattutto da chi fatica ad usare la comunicazione verbale.
  3. A coppie: uno si muove lentamente, l'altro canta il movimento in atto. Poi si invertono i ruoli. Uno canta, l'altro segue il canto con il movimento del corpo. Svaniscono i ruoli, non c'è più chi conduce e chi viene condotto. Nasce un dialogo, si sviluppa l'ascolto reciproco e spariscono i confini del suono e del movimento. Qui è evidente una similitudine di ciò che può succedere in un percorso di musicoterapia con una persona con il canale vocale compromesso ma con buone capacità di movimento oppure, al contrario, che fa buon uso della voce, ma non è abile fisicamente. Il rispecchiamento può avvenire in modi differenti, usando varie modalità espressive e mantenendo sacra l'importanza dell'ascolto e della disponibilità a mettersi in gioco.
  4. In cerchio seduti, occhi chiusi. Una persona sceglie un'altra e la chiama con il canto, senza parole. Quando uno si sente chiamato risponde cantando. Se la persona che risponde non corrisponde a quella dell'intenzione iniziale, chi chiama deve insistere e chiamare ancora la stessa persona finché questa non risponde. E' un'esperienza complessa, lunga e impegnativa, fattibile con un gruppo specifico, capace di stare a lungo fermo, in silenzio e in ascolto. Occorre tranquillità e pazienza. Il suono ha un suo comparto fisico, materiale. Quando una persona sta cantando per te, il suono della voce ti arriva addosso, ti avvolge, percepisci che c'è un'intenzione precisa nei tuoi riguardi. Il nostro corpo sente, a volte molto meglio delle nostre orecchio e del nostro cervello. Se il canto è rivolto a te in modo specifico, prima o poi, te ne accorgi, lo senti.
  5. A coppie, in piedi, uno di fronte all'altro. Uno canta in direzione dell'altro che cammina a occhi chiusi all'indietro allontanandosi, tenendo sempre agganciata la voce del compagno. E' un'esperienza complessa, le voci si mescolano e diventa difficile mantenere il contatto con la propria voce guida. E' automatico aumentare l'intensità quando anche gli altri aumentano lo sforzo, ma il volume alto non sempre corrisponde alla sensazione di maggior presenza. Entrambi i partecipanti hanno un ruolo attivo, chi ascolta è protagonista quanto chi vocalizza. Si perdono i ruoli di guida e guidato, si sviluppa subito un forte contatto sonoro da parte di entrambi. La voce guida diventa una base sicura su cui si fa affidamento per potersi allontanare senza timore di essere “abbandonati”. Entrambi vivono la sensazione della dimensione spaziale della voce. L'uso del canale vocale in ambito terapeutico è centrale nella misura in cui questo diventa un gancio relazionale cui affidarsi, una presenza cui potersi appoggiare nel momento in cui altri canali comunicativi sono compromessi (deficit di altri sensi, incapacità motoria che non permette l'uso di strumenti, predilezione per il canale vocale).
  6. A coppie. Ci si muove nello spazio in silenzio. Poi, al segnale (pacca sulla spalla), ci si stacca e si cammina nello spazio. Bisogna ritrovarsi. Si attivano i sensi meno protagonisti della vista. Quando ci si lascia si può provare la sensazione di sentirsi soli, oppure, al contrario, di essere liberi. Ritrovarsi è sintesi di una serie di emozioni (ritrovare la parte mancante, tornare a casa, non essere più soli...). La relazione con l'altro dà e toglie qualcosa. Nell'incontro musicoterapico bisogna costruire un rapporto di fiducia reciproca, non è scontato stare con un'altra persona, bisogna essere disposti a metter da parte la propria individualità e aprirsi all'altro. La musicoterapia non si fa a occhi chiusi ma le dinamiche che si attivano sono molto simili a quelle vissute in questa attività. Bisogna essere disposti ad attivare una grande sensibilità sottile che ci predispone inevitabilmente all'incontro.
  7. Altre coppie. Si rifà lo stesso esercizio. Nella relazione vengono coinvolti i sensi che vengono messi alla prova perché bisogna cambiare ciò a cui siamo abituati. Nella relazione musicoterapica è essenziale dare importanza al silenzio, che è la dimensione fondamentale per attivare il contatto sottile. Questa relazione fine si attiva in ogni rapporto intimo (madre-figlio, amici, relazione di coppia, ..) ma spesso non ce ne accorgiamo e non gli dedichiamo l'attenzione necessaria. Ognuno di noi ha un grande potenziale di cui usiamo solo una parte nella nostra vita quotidiana. In un incontro sonoro-musicale di tipo terapico queste sensazioni sono segnale di uno stato d'animo. Se ci fosse il tentativo di un paziente di interrompere o sabotare l'attività il terapista dovrebbe essere in grado di riconoscere il momento e decidere se sia il caso di fermare o continuare il momento. Inoltre stare con la sonorità e la fisicità dell'altro permette di incontrare la propria sonorità e fisicità, quindi di stare con se stessi.
  8. Una persona sta in piedi a occhi chiusi. Altre 5-6 persone, una alla volta, gli si mettono davanti per qualche istante, in silenzio e senza muoversi. La persona deve riconoscere il suo compagno di prima, senza vista e senza contatto. La nostra presenza denota il nostro esserci, quando siamo in una stanza già stiamo facendo qualcosa, cioè ci siamo. Prima ancora del nostro agire o del suonare/cantare, il nostro esserci descrive la nostra persona. Questa esperienza, trasposta in un dimensione musicoterapica, mostra che non bisogna imporre la nostra volontà, non bisogna pretendere che l'altro produca un suono. Prima di tutto bisogna ascoltare quello che c'è con la sensibilità sottile, anche nel silenzio e nell'immobilità fisica.
  9. Ognuno scrive una brave poesia, o un racconto. A turno vengono letti ad alta voce. Poi i fogli vengono distribuiti in modo casuale ai partecipanti in modo che ciascuno riceva il manoscritto di un altro. Vengono sonorizzati uno alla volta e i partecipanti devono indovinarne l'autore. Leggere ad alta voce qualcosa di nostro ci intimorisce, ci mette a nudo. Di contro nell'interpretazione del brano di qualcun'altro abbiamo la responsabilità verso l'autore. Nell'interpretazione del messaggio bisogna lasciarsi trapassare dal contenuto dello scritto, bisogna farlo proprio. Quando si assiste all'interpretazione del proprio scritto si fa i conti con la personale aspettativa che, come spesso succede, può sporcare il vissuto emotivo e può non permettere una vera partecipazione alla scena rappresentata. L'ascolto fa sentire sensazioni nuove, non contemplate precedentemente. La nostra mente cerca di incasellare, di categorizzare. Più rimaniamo disposti all'ascolto incondizionato più accogliamo le sonorità diverse che danno qualcosa di nuovo. Le emozioni sono indicatore di qualcosa, ci portano da qualche parte. Il suono è un ottimo conduttore di emozioni. Nella terapia sonoro-musicale la paura di non essere in grado di stare in una relazione ci impedisce di sperimentare strade nuove, siamo più concentrati nei nostri timori che nel modo per affrontarli. Le relazioni difficili, in particolare quelle che nascono in una dimensione terapica, non devono spaventarci, non devono essere allontanate. Anzi, bisogna immergersi nella difficoltà per permetterci di trovare strade alternative.

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