venerdì 3 marzo 2017

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_7

Esperienze didattiche


L'universo non è niente di più niente e di meno che una serie infinita di vibrazioni.
J. Goldman, Il potere di guarigione dei suoni

Durante la formazione triennale a Lecco la mia classe ha partecipato a alcuni laboratori e lezioni interattive su come avviene una seduta di musicoterapia, oltre a momenti dedicati all'acustica, alla composizione e all'improvvisazione. Molte volte ci è stato chiesto di usare il nostro strumento, quello che sentiamo più vicino. Abbiamo fatto improvvisazioni guidate, in coppia, in piccoli gruppi o nel grande gruppo. E' stato molto interessante giocare a esplorare il suono da punti di vista diversi, utilizzando i nostri strumenti in modi inconsueti e altri oggetti di uso comune sfruttandone il loro carattere sonoro, come scope, macchine da scrivere, utensili da cucina, insieme a Daniele Vineis.Nei tre anni sono stati proposti alcuni seminari specifici sull'esplorazione della nostra vocalità. Io ne ho seguiti uno con Marco Belcastro, e uno dall'area di drammaterapia sull'uso della risata condotto da Bruno Nataloni.E' stato interessante l'andamento del modulo di Musicoterapia didattica condotto da Marzia Mancini, musicoterapista e formatrice esperta. Quando abbiamo iniziato il gruppo era composto da dieci-dodici persone, che si conoscevano da un anno, seppur in modo superficiale. Le età erano comprese tra i 25 e i 40 anni, suonatori di vari strumenti (chitarra, percussioni, contrabbasso, flauto traverso, clarinetto, basso elettrico, pianoforte,...), due cantanti, alcune maestre di scuola primaria, qualche insegnante di strumento, altri provenienti da diversi ambiti professionali. Gli incontri si svolgevano circa ogni due settimane e duravano mezza giornata l'uno. Il percorso si è svolto in due fasi: nel primo anno l'insegnante ha assunto il ruolo di conduttrice e moderatrice, nel secondo anno questo ruolo è stato affidato, a turno, a coppie di allievi. Ogni incontro aveva sempre la stessa struttura: l'introduzione verbale al lavoro con eventuali commenti sull'incontro precedente, un'improvvisazione di gruppo, la verbalizzazione e la restituzione da parte del/i conduttore/i. Lo schema ripetitivo serviva a mettere in moto una serie di dinamiche personali e gruppali. Veniva lasciato spazio ai comportamenti e alle emozioni dei singoli, in modo che fosse facilmente osservabile l'andamento delle dinamiche all'interno di una cornice riconoscibile. Il lavoro è stato impostato da subito sotto una lente fenomenologica. Questa prevede l'osservare e il prendere nota di fenomeni e di comportamenti così come avvengono. Un evento assume significato per quello che è nel qui e ora, non subisce indagini causali o finali o approfondimenti rispetto ad altri significati. In quest'ottica ogni fatto assume senso in relazione alla situazione presente. Il punto di vista fenomenologico prescinde da tutto quello che è successo prima, non parte dalla storie personali dei partecipanti, né dalle loro competenze specifiche. Un evento è importante già solo perché c'è, nel suo manifestarsi si mescola al contesto, lo condiziona, lo modifica e diventa parte di esso. In qualche modo anche ciò che non avviene ha lo stesso senso, ma il non succedere necessita di un'indagine di altro tipo, una meta-indagine (l'indagine dell'indagine) che non fa parte della metodologia fenomenologica. Grazie a questo modello direzionale gli incontri sono stati molto sentiti e ricchi di spunti di riflessione.Il setting veniva disposto sempre nello stesso modo: un cerchio di strumenti (xilofono, metallofono, shaker, tamburi, tom, woodblock, campanelli, triangoli) intorno ai quali prendevano posto i partecipanti seduti sui cuscini. Il/i conduttore/i verbalizzava/no una suggestione o una consegna specifica, dopodiché prendeva inizio l'improvvisazione. Abbiamo suonato tanto, piano, forte, molto forte, ci sono state persone protagoniste e altre in ombra, ciascuno ha vissuto in modi diversi gioia, noia, eccitazione e fastidio. L'improvvisazione assumeva forme differenti e irripetibili, era carica di senso e portatrice di emozioni forti e contrastanti. Durava 15-20 minuti, duranti i quali ciascuno ha contattato le proprie emozioni, ha sperimentato in modo diversi l'ascolto interiore, il dialogo sonoro, la relazione speciale, il sentirsi parte e il sentirsi escluso.Gli incontri hanno confermato l'importanza e la delicatezza dell'uso della voce. Dopo le prime esperienze, io per prima, insieme ad altre persone, abbiamo sentito la necessità di introdurre il suono della voce, in primo luogo per aggiungere a un paesaggio sonoro, quasi esclusivamente ritmico, un elemento melodico chiaro e riconoscibile. L'aggiunta dell'improvvisazione vocale accanto a quella strumentale ha generato curiosità ma soprattutto disagio, rifiuto e chiusura nel gruppo. È apparsa chiaramente una dinamica di difesa verso uno strumento musicale che è stato poco esplorato durante gli anni di formazione. Alla luce delle numerose riflessioni teoriche che ho precedentemente descritto, non è difficile comprendere il perché di queste difficoltà. Come abbiamo detto, la voce svela e rivela. Se in un gruppo che improvvisa con le percussioni si introduce una voce, quella voce si impone subito come unica, riconoscibile e caratterizzata, molto più di una serie di suoni con un tamburo o uno xilofono. Inoltre, la voce apre in modo immediato al vissuto interno della persona, alle sue emozioni, al suo respiro, alle sue tensioni. Si tratta di un processo di svelamento che è più diretto e immediato di quello strumentale, e per questo può essere vissuto come eccessivo, “impudico”, invasivo, da persone che non hanno altrettanta familiarità con lo strumento vocale. Il gruppo ha saputo solo raramente accogliere questa “chiarezza” e incontrarsi nella coralità. Le difficoltà emerse sono state verbalizzate incontro dopo incontro e hanno confermato l'ambivalenza dello strumento vocale in musicoterapia. Da un lato la sua immediatezza, il suo essere sempre a disposizione, il suo portato di semplicità e di carico emozionale; dall'altro la sua fragilità, la sua complessità soprattutto sul piano della relazione e del vissuto interno. Sperimentare in modo diretto questa duplicità è stata un'occasione preziosissima per confermare una volta di più che la voce rappresenta uno strumento fondamentale per l'attività in musicoterapia e che richiede una preparazione solida e adeguata. Proprio per questo ha bisogno di spazio, va aiutata, accompagnata con cura e attenzione. La vocalità è un canale importante, in musicoterapia può e deve essere accostata alle altre strategie di lavoro, trovando con esse un'armonizzazione che non vieti nulla, anzi possa aprire possibili finestre di dialogo e esplorazione. Al contrario il rischio è che il professionista si trovi a fare i conti con un tabù, un limite che difficilmente saprà superare da solo durante il suo lavoro, perché non ne ha potuto comprendere appieno la portata e il senso.

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