Esperienza
sul campo_due: La liberazione della voce
I
gruppi curano i gruppi.
Vincenzo
Bellia, Dove
danzano gli sciamani
La
mia seconda Esperienza sul campo è stata rivolta a cinque ospiti
della Cooperativa Sociale Penna Nera di Mariano Comense. Gli
incontri sono stati sempre di gruppo, della durata di un'ora, con
cadenza settimanale. Abbiamo iniziato a febbraio '16 e concluso a
ottobre '16. La partecipazione è sempre stata numerosa, le poche
assenze sono state motivate con impegni personali al di fuori della
vita della cooperativa o qualche lieve malattia. Gli obiettivi sono
stati rivolti al gruppo e, in diversa misura, ai singoli. Alcune
competenze che si è inteso promuovere nell'individuo afferivano alla
dimensione relazionale, alla maturazione delle capacità di stare in
gruppo. Il motore della terapia è stata la relazione, da cui
parallelamente si è raggiunto il singolo. Si è creato un gioco di
risonanze e rispecchiamenti complesso, su ciascun membro sono
confluite attribuzioni simboliche e personali che poi il gruppo ha
riassorbito. Si è creato un campo tranferale sempre in movimento e
trasformazione. Ogni azione del singolo è ricaduta nel gruppo, ogni
suono, ogni movimento è stato percepito, integrato e sincronizzato.Il
setting e lo strumentarioGli
incontri avvenivano nella piccola palestra, con ai lati cyclette e
attrezzi ginnici che non hanno mai suscitato l'interesse dei
presenti, forse anche perché li usavano già in altri momenti della
settimana. Allestivo il setting sostanzialmente allo stesso modo,
apportando qualche modifica via via per arrivare a una disposizione
funzionale: sedie a cerchio, un tavolo con tovaglia facente parte del
cerchio, un tavolino con PC e casse a mia disposizione. Lo
strumentario veniva posizionato sul tavolo verso la metà
dell'incontro, al momento dell'improvvisazione. Abbiamo suonato
shakers, tamburi, piatti, woodblock, maracas, triangoli, jambee,
flauti dolci, tamburelli, triangoli, chitarra, metallofono,
oceandrum, ukulele, kazoo, flauti a coulisse.Dopo
aver osservato la presenza sonora dei partecipanti, le loro strategie
messe in campo in termini di adattamento spaziale, temporale e
relazionale, i limiti e le capacità espressi e latenti, ho dato agli
incontri una struttura semplice e ripetitiva: un momento introduttivo
di ascolto di brani proposti dai partecipanti o da me,
un'improvvisazione di gruppo della durata di circa 25 minuti, una
condivisione verbale e un saluto finale con l'ascolto di un altro
brano o con una breve improvvisazione con strumenti a percussione e
la voce.Il
canto stereotipato e la prestazioneHo
sempre proposto ascolti di musiche lontane dal quotidiano dei
partecipanti (jazz, classica, lirica, elettro-pop, rock, etc.) che
hanno suscitato reazioni diverse. Chiedevo ai partecipanti di
proporre degli ascolti per stimolare la loro sensibilità e la
saggiare la colonna sonora della loro vita. Spesso le loro proposte
raccoglievano dal mondo della musica leggera italiana, dalla
stereotipia della radio degli anni '70-'90: Gianni Morandi, I ricchi
e poveri, Battisti, Marcella Bella, I Pooh, Celentano, Battisti,
Laura Pausini. Nel tempo abbiamo codificato un modo di ascoltare
questo genere di brani che potrei definire ascolto partecipato:
ascolto e canto. Mettevo a disposizione alcuni oggetti che, per la
loro forma, assomigliano a dei microfoni. Ciascuno sceglieva il
proprio e lo usava nel canto in modo molto personale. Qualcuno lo
impugnava proprio come si vede fare dai cantanti professionisti,
altri lo tenevano in mano appoggiato sulle gambe, altri lo
dondolavano avanti e indietro per aiutarsi dei movimenti. Se
inizialmente poteva esserci timidezza nei partecipanti, l'assenza di
giudizio e di confronto reciproco ha progressivamente sciolto i
timori. Questo momento è diventato occasione per una gioiosa
espressione nel canto, per contattare se stessi, la propria voce e
per stare con gli altri in un modo non consueto. Alcuni partecipanti,
in momenti di particolare trasporto emotivo, si alzavano e davano
fisicità al canto, in piedi davanti alle casse, come se fossero
assettati di vibrazioni. Una persona ha espresso a gran forza la
propria presenza portando una voce forte, presente, vibrante, come se
lì ci fosse un dono nascosto e non espresso in altre occasioni.
Permettere che queste manifestazioni trovassero la via ha dato a
questa pratica grande rilevanza. Sono stati coltivati l'ascolto
autentico, l'assenza di giudizio, la non competizione, il
divertimento e la leggerezza. Se da una parte i partecipanti potevano
cadere nella trappola dell'ansia di prestazione cercando di cantare
bene, chiedendomi se fossero stati bravi e atteggiandosi come i
cantanti della TV, dall'altra si dimenticavano queste strutture,
lasciavano cadere i condizionamenti semplicemente vocalizzando. I
miei interventi avevano l'intenzione di portare il gruppo in questa
direzione, in modo morbido e mai forzato. Ho progressivamente tolto
importanza all'oggetto-microfono trasformando il mio progressivamente
in una sorta di amuleto, appoggiato di fianco a me. Se nei primi
incontri la mia voce emergeva nella sonorità di gruppo con
l'intenzione di mostrare nuove possibilità, poi ho lasciato spazio
alle voci degli altri cercando per me la via della trasparenza. Mi
rendo conto che sono stati passaggi importanti, che sono avvenuti
gradualmente, in modo da lasciare ai partecipanti la conquista di
ruoli nuovi e la conferma delle proprie rivelazioni.La
voce liberaNei
nostri incontri è stato dato molto spazio all'improvvisazione.
Venivano messi a disposizione diversi strumenti musicali, per lo più
a percussione: shakers, tamburi, piatti, woodblock, maracas,
triangoli, jambee, tamburelli, triangoli, metallofono, oceandrum, due
flauti dolci, flauti a coulisse, una chitarra, due kazoo e due
ukulele. Il gruppo ha sperimentato vari modi di suonare. All'inizio
c'era la curiosità di conoscere gli strumenti, di sperimentarne le
qualità sonore, poi abbiamo conquistato il piacere del suonare
insieme. E' comparsa la voce, dei semplici vocalizzi ripetuti diverse
volte, note armonizzate sulla struttura prima-terza-prima, a ritmo
con il suono presente in quel momento, ad un'altezza comoda per
tutti. Lo spaesamento iniziale dei volti poteva essere un freno, chi
rideva, chi guardava fisso, chi continuava a suonare senza mostrare
particolare interesse. Ho proposto più volte vocalizzi simili tra
loro e così, nel tempo, la voce non è stata più una novità. E'
diventata una possibilità per creare dialoghi sonori, a due o più
voci, brevi botta e risposta, piccole melodie inventate o riprese da
canzoni conosciute, giochi fatti con i nomi dei partecipanti. Il
desiderio comune di cantare ha generato un circolo virtuoso di azioni
importanti per i singoli, per il gruppo e per me come conduttrice.
Abbiamo conquistato un territorio prezioso, di tutti. Nella fase
finale del progetto il canto aveva consolidato un ruolo condiviso da
tutti, a sé stante rispetto a quello degli strumenti. Cantare una
canzone famosa non era molto diverso da vocalizzare dei pattern
sonoro-musicali ripetuti, chiamare per nome i presenti a ritmo di
percussione, o intonare una melodia improvvisata. Questa esperienza
mostra una possibilità per strutturare un percorso vocale e
strumentale che può prendere varie direzioni, può rallentare o
accelerare volta dopo volta, e può essere occasione di grande
ricerca da parte del conduttore
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