venerdì 3 marzo 2017

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_3

La prestazione nel canto

Qualche anno prima di cominciare la scuola di Musicoterapia ho iniziato a cantare come solista in un gruppo di musiche folk a ballo. Prima di allora avevo cantato solo qualche altra volta davanti a un pubblico, senza grande preparazione e senza consapevolezza rispetto a cosa ciò suscitava in me. Ricordo molto bene l'imbarazzo che ho provato alla mia prima. Avevo un grande timore legato alla presenza delle persone in sala, a quello che avrebbero pensato, come avrebbero giudicato il mio canto. Sono stata sopraffatta dall'ansia di prestazione, dal timore del giudizio di chi ascoltava e dalla paura di non soddisfare le loro aspettative, ma soprattutto le mie, le più implacabili. Non sapevo come stare fisicamente, se tenere in mano il microfono o lasciarlo appeso all'asta che lo sosteneva, se restare in piedi o sedermi. In qualche momento ho desiderato nascondermi dietro a qualcosa, un paravento, una protezione. Non c'era nulla, non avevo nessuno schermo. Mi sono sentita indifesa, fragile, nuda. Da quel giorno ho cantato per otto anni, in tante situazioni diverse, davanti a tante persone, come solista o con altre voci di accompagnamento. Ho avuto modo di esplorare le varie dimensioni dell'uso della vocalità e ho intuito quanto sia un canale di espressione complesso e importante. Ho progressivamente sviluppato alcune consapevolezze rispetto a ciò che succede quando si canta davanti a chi è lì per ascoltare, per caso o per scelta, chiunque egli sia. Cercherò di sintetizzare qui di seguito ciò che ho osservato.In un ambiente informale come quello di una festa popolare chi ascolta molte volte non si aspetta qualcosa di specifico: della buona musica, una situazione piacevole, una serata leggera di divertimento con qualche amico. Spera di stare bene e semplicemente si lascia trasportare da quello che succede. Chi si esibisce invece, canta o suona, vive altre emozioni, forti e contrastanti. Le vive per primo, è egli stesso generatore delle emozioni che lo attraversano. Allo stesso tempo è il canale di espressione di queste, con il corpo, la presenza, il movimento, gli sguardi, i respiri, la voce. Durante l'esibizione l'artista passa questo carico emotivo a chi ascolta che, a sua volta, lo fa proprio per poi restituire al palco il proprio vissuto attraverso gli applausi. Ecco che artista e spettatore, diventando al contempo sorgenti e fruitori di emozioni, generano una gestalt espressiva potente e autoalimentante. In questa dimensione relazionale chi fa la musica, chi la crea, cioè il musicista, suona uno strumento. Lo usa come intermediario nella relazione con se stessi e con gli altri. Può abbracciare il proprio strumento, gli può attribuire il ruolo di maschera di sé, ci si può appoggiare, immedesimare e ogni tanto anche nascondere. L'uso degli strumenti (non a caso si chiamano così, sono strumento di qualcosa) è un modo attraverso cui si può riuscire a non sentirsi “soli” e esposti al giudizio degli altri, in particolare se il suonatore si trova di fronte a una platea di ascoltatori. Allo stesso modo, alcuni gesti che compiamo normalmente sono spesso sintomo di un nostro accomodamento all'ambiente, un tentativo di gestione dell'imbarazzo o dell'ansia rispetto alle aspettative nostre e degli altri. In ambiti non strettamente musicali, alcuni semplici gesti come il lisciarsi i capelli con le mani, muoversi, gesticolare nel parlare sono strategie necessarie, e a volte addirittura indispensabili, per creare un tramite, un ponte tra noi e il resto del mondo, tra il dentro e il fuori, tra illusione e realtà, tra il mondo interno e ciò che ci circonda. La nostra percezione di noi stessi spesso non corrisponde alla percezione che gli altri hanno di noi. Sono due visioni diverse ma tendiamo a unificarle in un'unica proiezione. Questo genera il gap che dobbiamo colmare, un senso di inadeguatezza che difficilmente riusciamo a integrare e armonizzare. Usare uno strumento musicale, in musica, è una strategia che riassume il tutto in un oggetto-gesto: il suonare. Usare la voce significa mettersi a nudo, di fronte a se stessi e agli altri. Non ci sono oggetti transizionali tra sé e il mondo esterno, per dirla alla Winnicott. Chi usa la voce è spoglio di questa possibilità. Non ha niente dietro cui celarsi se non il microfono. Ha una diversa percezione di sé, del proprio corpo, dello spazio interno e dello spazio esterno circostante. Ecco che si può attribuire allo strumento musicale o, al massimo al microfono, il ruolo che la coperta ha per Linus nel fumetto qui sopra citato.Quando ho cominciato a cantare come solista non avevo una formazione specifica. Ho deciso quindi di darmi una direzione. Ho fatto alcune insoddisfacenti esperienze con insegnanti che ponevano grande attenzione prima di tutto alla tecnica e all'estetica formale. Spesso veniva data precedenza alla prestazione, dimenticando gli aspetti emozionali profondi, espressivi, rivelatori del mondo interno. Questo generava in me una sorta di sdoppiamento, non riuscivo a comprendere pienamente cosa mi desse un senso vago di soddisfazione-felicità e frustrazione-allontanamento. Ora capisco che mancava tutta una fase di accudimento, un'educazione, un prendersi cura verso il mondo sensoriale - emozionale mosso dal mio canto.


Il Metodo FunzionaleHo incontrato il Metodo Funzionale della Voce grazie al Maestro Marco Belcastro. Con lui ho iniziato un percorso personale fatto di esplorazioni, rivelazioni, giochi, rivolti all'uso della voce come strumento di espressione di un sistema più complesso, la mia persona in una visione olistica. Ho sperimentato un canto slegato dalla prestazione. Gli incontri spesso vertevano sul lasciare che la voce si manifestasse da sola, senza forzature. Si usavano singole vocali (spesso solo la A e la O) e monotoni (una nota sola). Ci si muoveva di qualche intervallo di due o tre toni, su e giù, senza una melodia. Tutto questo per un'ora abbondante, che nella mia percezione volava in un soffio. In questa dimensione la mia presenza era volta all'osservazione di quello che c'era, così com'era, senza giudizio, senza ricerca, senza domande. Il suono della mia voce veniva guidato dalle indicazioni di Belcastro e veniva progressivamente liberato di ogni dovere. Ricordo che lui spesso mi diceva:” permettiti di non riconoscere la tua voce, permettiti di lasciarti andare”. In questo modo progressivamente il mio stato psico-fisico si rilassava e dimenticava la prestazione. La laringe si ammorbidiva, il respiro si faceva più lento e profondo, il suono trovava nuove cavità interne di risonanza dove potersi arricchire. Il mio canto diventava progressivamente rotondo, forte, ricco di armonici, con un vibrato sonoro e regolare. In questa attività, apparentemente senza scopo, sentivo che stavo facendo un viaggio di scoperta personale, di osservazione profonda di me, delle mie paure, dei miei blocchi e, al contempo, delle mie capacità, della forza impressionante del mio corpo, e della bellezza di esprimermi senza timori del giudizio. Lasciavo andare le difese per trovare me stessa. Il mio canto cambiava progressivamente forma, avevo la sensazione che non fosse più mio, mi stupivo di poter produrre dei suoni così ricchi di armonici, così potenti e caldi. Ho provato per la prima volta il senso di un percorso terapeutico con la la vocalità.Di fatto il canto è permesso dal movimento dell'aria che forma un'onda, detta onda sonora. La brillantezza del suono nel canto è associata alla formante, cioè l'onda sonora. Accanto alla prima formante, l'onda della nota dominante, se ne formano altre dalla prima (gli armonici). Le formanti secondarie, se non ascoltate con attenzione, potrebbero apparire come rumori parassiti. Con un'educazione all'ascolto si può risvegliare la capacità di riconoscere gli armonici del proprio suono, per lasciarli agire. Nel momento in cui questi si attivano anche il corpo trae beneficio: si contrae la mascella, la respirazione e l'articolazione avvengono con il minor sforzo, la laringe si abbassa, la colonna vertebrale è eretta, la muscolatura si rilassa.Nella laringe c'è un complesso meccanismo di corde vocali che regola l'altezza della nota, l'intensità, il cantare o il parlare. La laringe, a livello di riflessi, potrebbe fare tutto nel modo migliore, ma noi non glielo lasciamo fare. Ci sono molte intromissioni in questo sistema laringeo. La compensazione da fuori, operata dalla nostra razionalità, genera un irrigidimento sulle strutture laringee, cioè una forte tensione. La laringe di per sé ha un importante ruolo di protezione della gola, per questo tende a irrigidirsi. Un sistema serrato è più facilmente governabile dalla nostra volontà e si ha la sensazione di essere più padroni di noi stessi. In realtà il vero potenziale della laringe viene limitato. In questo percorso educativo e trasformativo ho scoperto una nuova percezione del mio sistema sensoriale, che ha generato una rivitalizzazione della voce che si è resa indipendente dalle forze corporee, dalla volontà, della razionalità.

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